domenica 18 ottobre 2015

Anteprima: Un indimenticabile disastro


Buon pomeriggio lettori!
Oggi, come ogni domenica, super chicca tutta per voi.
Chi non conosce Travis Maddox e tutti i suoi fratelli? Bhè... penso nessuno. Ebbene si, se ve lo state chiedendo tra poco in libreria ci sarà il secondo volume della serie "Maddox bros" con Thomas, uno dei tanti fratelli :)
Come sempre AnniDiNuvole vuole condividere con voi le prime pagine del libro, tradotte in super anteprima per voi!
Buona lettura.

La serie è composta da:

1- Uno splendido sbaglio
2- Un indimenticabile disastro (5 novembre in Italia)
3- Beautiful sacrifice


Trama: La cosa più importante per Thomas Maddox è proteggere i suoi fratelli. Travis, con le sue bravate e la sua aria da duro, è quello che gli dà più filo da torcere. Anche ora che nella sua vita è arrivata Abby, l’unica che riesce a tenergli testa e a far breccia nel suo cuore di guerriero. 
Il cuore di Thomas, invece, non ha più spazio per i sentimenti. Sembra che per lui, cinico e sfuggente, non valga il detto «quando un Maddox si innamora è per sempre». Ma per la sua famiglia è pronto a fare di tutto. 
Dopo l’ennesimo errore, Travis si trova in una situazione più grande di lui. Thomas sa che per toglierlo dai guai c’è una sola persona che può aiutarlo: Liis. Liis che vorrebbe avere tutto sotto controllo, ma in amore non ci sono regole. L’imprevisto è la vera magia. Dal loro primo incontro la ragazza ha capito che non si può sfuggire a quegli occhi. Eppure, costretta a lavorare al fianco di Thomas ogni giorno, per salvare Travis e permettergli di vivere la sua splendida storia con Abby, Liis è messa a dura prova. Perché vederlo lottare per suo fratello le mostra un lato di Thomas che non credeva esistesse. Perché la felicità che prova quando è insieme a lui fa paura. Liis sente che tutti suoi tentativi di resistere all’amore stanno per vacillare. Ma il prezzo da pagare forse è troppo alto e la possibilità di soffrire ancora molto, molto vicina.


Cap. 1

Il controllo era l’unica cosa reale. Fin da quando ero piccola avevo imparato che pianificare, calcolare ed osservare potevano evitare molte cose spiacevoli, rischi non necessari, delusioni e, più importante, struggimenti.
Pianificare per evitare spiacevolezze, non era tuttavia sempre facile, un fatto che diventò palesemente evidente nella luce soffusa del Cutter’s Pub.
La insegne al neon appese alle pareti, circa una dozzina, e la debole fila di lampadine al soffitto, che mettevano in risalto le bottiglie di liquore dietro il bar, erano solo lievemente confortanti. Tutto il resto rendeva semplicemente evidente quanto lontana fossi da casa.
Il fienile di legno riutilizzato costituiva i muri e il pino bianco imbrattato di macchie nere era stato pensato specificatamente per rendere quello spazio di Midtown assomigliante a un bar buco-nel-muro, ma era troppo pulito. Cento anni di fumo non avevano impregnato la pittura. I muri non sussurravano Capone o Dillinger.
Ero seduta sullo stesso sgabello da due ore, da quando avevo finito di spacchettare le scatole nel mio nuovo appartamento. Per quanto avessi potuto sopportare, avevo messo via gli oggetti che mi ricordavano chi ero. Esplorare il nuovo vicinato era molto più allettante, specialmente in quell’aria serale, straordinariamente mite nonostante fosse l’ultimo giorno di Febbraio. Stavo sperimentando la mia nuova indipendenza con, in aggiunta, la libertà di non avere nessuno a casa che si aspettasse un resoconto su dove fossi stata.
Il cuscino dello sgabello che stavo riscaldando era coperto di finta pelle arancione e, dopo aver bevuto una buona percentuale dell’incentivo di trasferimento che l’FBI aveva così generosamente depositato sul mio conto quel pomeriggio, me la stavo cavando abbastanza bene ad evitare di cadere giù.
L’ultimo dei miei cinque Manhattan della serata scivolò dall’interno dell’elegante bicchiere nella mia bocca, sfrigolando giù per la mia gola. Il bourbon e il dolce vermouth sapevano di solitudine. Quello almeno mi faceva sentire a casa. Casa, però, era a migliaia di chilometri di distanza, e sembrava sempre più lontana quanto più stavo seduta su uno dei dodici sgabelli allineati lungo il bancone ricurvo.
Non mi ero smarrita, comunque. Ero una fuggitiva. Pile di scatole sedevano nel mio nuovo appartamento al quinto piano, scatole che avevo imballato con entusiasmo mentre il mio ex fidanzato, Jackson, se ne stava in piedi imbronciato in un angolo nel nostro piccolo appartamento di Chicago.
Andare avanti era la chiave per scalare i ranghi dell’FBI, ed in poco tempo io ero diventata molto brava a farlo. Jackson era rimasto imperturbato la prima volta che gli avevo detto che mi avrebbero trasferita a San Diego. Persino all’aeroporto, poco prima che partissi, aveva promesso che avremmo ancora potuto farla funzionare. Jackson non era per niente bravo a lasciar andare. Aveva minacciato di amarmi per sempre.
Dondolai il bicchiere del cocktail di fronte a me con un sorriso di aspettativa. Il barista mi aiutò a posarlo rumorosamente sul legno, poi me ne versò un altro. La buccia d’arancia e la ciliegia ballavano lentamente tra la superficie e il fondo, come me.
“Questo è l’ultimo, tesoro,” disse, pulendo il bancone a entrambi i miei lati.
“Smettila di impegnarti tanto. Non lascio grandi mance.”
“I federali non lo fanno mai,” disse senza giudicare.
“È così ovvio?” dissi.
“Molti di voi vivono qui attorno. Parlate tutti nello stesso modo, e tutti vi ubriacate, la prima sera via da casa. Non ti preoccupare. Non gridi FBI.”
“Grazie a Dio,” dissi, alzando il mio bicchiere. Non lo pensavo davvero. Amavo l’FBI e tutto ciò che lo riguardava. Avevo amato persino Jackson, che era anche lui un agente.
“Da dove ti sei trasferita?” mi chiese. La sua maglietta nera col collo a V troppo stretta, le sue cuticole con manicure e il ciuffo fissato perfettamente tradirono il suo sorriso civettuolo.
“Chicago,” dissi.
Le sue labbra si ritirarono e piegarono finché, in qualche modo, sembrò un pesce, e i suoi occhi si spalancarono. “Dovresti festeggiare.”
“Immagino che non dovrei essere triste, a meno che non finiscano i posti in cui poter scappare.” Bevvi un sorso e leccai il bruciore del bourbon via dalle mie labbra.
“Oh. Te ne sei andata dal tuo ex?”
“Nel mio lavoro non te ne vai mai davvero.”
“Oh, cacchio. Anche lui è un federale? Non cagare dove dormi, tesoro.”
Tracciai l’orlo del bicchiere. “Per quello non ti addestrano.”
“Lo so. Succede spesso. Capita sempre,” disse, scuotendo la testa mentre lavava qualcosa in un lavandino pieno di schiuma dietro il bancone.
“Vivi qui vicino?”
Lo adocchiai, sospettosa verso chiunque potesse riconoscere un agente e fare troppe domande.
“Frequenterai questo posto?” domandò chiarimenti.
Riconoscendo dove andava a parare con il suo terzo grado, annuii. “Probabilmente.”
“Non preoccuparti della mancia. Trasferirsi è costoso, e anche bersi quello che ci si è lasciati alle spalle. Ti farai perdonare in futuro.”
Le sue parole fecero curvare le mie labbra in su, in un modo in cui non avevano fatto in mesi, anche se probabilmente ero l’unica ad accorgermene.
“Come ti chiami?” domandai.
“Anthony.”
“Qualcuno ti chiama Tony?”
“Non se vogliono venire a bere qui.”
“Annotato.”
Anthony si tese verso l’unico altro avventore del bar in quella tarda notte di lunedì, che potremmo anche definire martedì di primo mattino. La donna tracagnotta di mezza età, con gonfi occhi rossi, indossava un vestito nero. Mentre lui faceva ciò, la porta si aprì e un uomo che aveva circa la mia età entrò, sedendosi due sgabelli più in là. Si allentò la cravatta e slacciò il primo bottone della sua camicia White Oxford perfettamente stirata. Guardò nella mia direzione; in quel mezzo secondo, i suoi occhi verde nocciola registrato tutto quello che voleva sapere di me. Poi si voltò.
Il mio cellulare vibrò nella tasca del mio blazer, e io lo tirai fuori per controllare lo schermo. Era un altro messaggio di Jackson. A lato del nome, un piccolo sei se ne stava stretto in una parentesi, segnando il numero di messaggi che aveva inviato. Il numero intrappolato mi ricordò dell’ultima volta che mi aveva toccata, durante l’abbraccio avevo dovuto convincerlo a lasciarmi andare.
Ero a duemila centocinquanta miglia da Jackson, ed era comunque in grado di farmi sentire colpevole, anche se non abbastanza colpevole.
Cliccai il pulsante al alto del mio telefono, oscurando lo schermo senza risponde al messaggio di Jackson. Poi alzai il dito in direzione del barista, mentre deglutivo ciò che rimaneva del mio sesto bicchiere.
Avevo trovato il Cutter’s Pub proprio dietro l’angolo del mio nuovo condominio a Midtown, un area di San Diego annidata tra l’aeroporto internazionale e lo zoo. I miei colleghi di Chicago stavano indossando le loro giacche a vento standard dell’FBI sopra i loro giubbotti antiproiettile mentre io mi godevo il clima di San Diego, più caldo del solito, in top, blazer e skinny jeans. Mi sentivo un po’ troppo vestita e un po’ sudata. Sicuramente poteva essere dovuto al livello di liquore in circolo nel mio sistema.
“Sei terribilmente piccola per un posto come questo,” disse l’uomo dei due sgabelli più in là.
“Un posto come?” disse Anthony, alzando un sopracciglio mentre praticamente serrava un pugno attorno a un bicchiere.
L’uomo lo ignorò.
“Non sono piccola,” dissi prima di bere un sorso. “Sono minuta.”
“Non sono la stessa cosa?”
“Ho anche un Taser nella mia borsa e un cattivo gancio sinistro, quindi non fare il passo più lungo della gamba.”
“Hai un buon kung fu.”
Non gli diedi la soddisfazione di prestargli attenzione. Al contrario, fissai davanti a me. “Quello era un commento razzista?”
“Assolutamente no. Mi sembri solo un po’ violenta.”
“Non sono violenta,” dissi, anche se era preferibile sembrare un bersaglio facile ed insulso.
“Ma davvero?” non stava chiedendo. Stava facendo l’ostile. “Di recente ho letto qualcosa su delle donne asiatiche, leader della pace, che venivano onorate. Immagino non fossi tra loro.”
“Sono anche Irlandese,” borbottai.
Fece una risatina. C’era qualcosa nella sua voce, non era solo ego, quanto più sicurezza. Qualcosa mi fece venir voglia di voltarmi e guardarlo per bene, ma mantenni gli occhi sulla fila di bottiglie di liquori dall’altra parte del bancone.
Dopo che l’uomo ebbe realizzato che non avrebbe ricevuto una risposta migliore, si mosse sullo sgabello vuoto al mio fianco. Sospirai.
“Cosa bevi?” chiese.
Ruotai i miei occhi e poi mi decisi a guardare nella sua direzione. Era bellissimo, come il tempo della California del sud, e non poteva assomigliare a Jackson meno di così. Persino da seduto, si capiva che era alto, almeno un metro e novanta. I suoi occhi color pera risplendevano in contrasto con la sua abbronzatura da spiaggia. Anche se per l’uomo medio avrebbe potuto essere intimidatorio, non mi sembrò che fosse pericoloso, non nei miei confronti almeno, sebbene fosse due volte me.
“Qualsiasi cosa stia comprando,” dissi, non provando a nascondere il mio miglior sorriso da flirt.
Abbassare la guardia per un bellissimo straniero per un’ora era giustificabile, soprattutto dopo il sesto bicchiere. Avremmo flirtato, avrei dimenticato gli ultimi residui di senso di colpa, e sarei andata a casa. Possibilmente avrei anche ottenuto un drink gratis. Era un piano rispettabile.
Fece un largo sorriso in ritorno. “Anthony,” disse, alzando un dito.
“Il solito?” chiese Anthony dalla fine del bancone.
L’uomo annuì. Era un cliente abituale. Doveva vivere, o lavorare, nelle vicinanze.
Aggrottai la fronte quando Anthony prese il mio bicchiere invece di riempirlo.
Alzò le spalle, nessuna scusa nei suoi occhi. “Ti avevo detto che era l’ultimo.”
Con mezza dozzina di sorsi lo straniero si scolò abbastanza birra scadente da essere almeno vicino al mio livello di ubriacatezza. Ne ero contenta. Non avrei più dovuto fingere di essere sobria e la sua scelta in fatto di drink mi diceva che non era esigente e non stava cercando di impressionarmi. O forse era solo al verde.
“Hai detto che non potevo offrirti da bere perché Anthony ti ha messo un freno o perché davvero non me lo lasceresti fare?” chiese.
“Perché posso comprarmi da bere da sola,” dissi, sebbene un po’ confusa.
“Vivi qui vicino?” domandò.
Sbirciai nella sua direzione. “Le tue sottosviluppate capacità conversative mi deludono di secondo in secondo.”
Rise ad alta voce, lanciando la testa all’indietro. “Cristo, donna. Da dove vieni? Non da qui.”
“Chicago. Appena piombata qui. Gli scatoloni sono ancora impilati nel mio salotto.”
“Posso capire,” disse, annuendo comprensivo mentre alzava la sua bevanda in segno di rispetto. “Ho cambiato due stati nel giro di tre anni.”
“Verso dove?”
“Qui. Poi, Washington. Poi di nuovo qui.”
“Sei un politico o un lobbista?” chiesi con un sorrisetto.
“Nessuno dei due,” disse, la sua espressione si trasformò in disgusto. Bevve un sorso della sua birra. “Come ti chiami?” domandò.
“Non interessata.”
“È un nome terribile.”
Feci una smorfia.
Lui continuò: “Questo spiega il trasloco. Stai scappando da un uomo.”
Gli lanciai un’occhiataccia. Era bellissimo, ma era anche presuntuoso, sebbene avesse ragione.
“E non ne sto cercando un altro. Non una storia da una notte, non una trombata per vendetta, nulla. Quindi non sprecare il tuo tempo e i tuoi soldi. Sono sicura che puoi trovare una ragazza carina della West Coast che sarebbe più che felice di accettare un drink offerto da te.”
“E dove starebbe il divertimento?” disse, avvicinandosi.
Mio Dio, sarebbe stato eccitante persino se fossi stata sobria.
Guardai in basso, al modo in cui le sue labbra toccavano il bordo della bottiglia di birra e sentii una fitta in mezzo alle cosce. Mentivo, e lui lo sapeva.
“Ti ho fatto incazzare?” chiese con il sorriso più affascinante che avessi mai visto.
Fresco di rasatura, con giusto un paio di centimetri di capelli castano chiari, quell’uomo e il suo sorriso avevano vinto sfide molto più scoraggianti di me.
“Stai cercando di farmi incazzare?” domandai.
“Forse. Il modo in cui stringi la bocca quando ti arrabbi è… fottutamente fantastico. Potrei comportarmi da stronzo con te per tutta la notte anche solo per poter fissare le tue labbra.”
Deglutii.
Il mio giochetto era finito. Aveva vinto, e lo sapeva.
“Vuoi andartene di qui?” chiese.

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